Uno spaghetto al pomodoro non fa Made in Italy
Nel nostro Paese mancano oggi 23,4 miliardi di metri cubi d’acqua, più o meno quanto il lago di Como. Questo è un problema sia per l’acqua da bere sia per la nostra agricoltura che da sola consuma ben il 70% di tutta l’acqua dolce disponibile.
In questa situazione di grande criticità ci possono venire in aiuto le tecnologie: irrigazione a goccia, sensori nel terreno, monitoraggio coi droni, Internet of Things, intelligenza artificiale. Il Professor Riccardo Valentini, che nel 2007 ha vinto il Nobel per la Pace per le sue ricerche sul cambiamento climatico e che oggi insegna all’Università della Tuscia, sottolinea che oggi questi strumenti non hanno più costi proibitivi e racconta di un progetto per l’efficientamento idrico che sta realizzando in provincia di Sassari, dove per attrezzare il terreno e l’impresa di tutta la tecnologia necessaria alla riduzione di consumi idrici, l’investimento è stato di circa 5mila euro per un periodo di dieci anni. Il Professore sottolinea che con queste risorse è possibile risparmiare molta acqua, anche fino al 50%.
Per agevolare il diffondersi di queste innovazioni il Professore propone incentivi come formule di smart contract, in base alle quali gli agricoltori possano essere remunerati per il risparmio idrico che riescono a raggiungere, oppure un bonus acqua per gli agricoltori virtuosi che investono nei sistemi di risparmio idrico.
L’agricoltura, che era divenuta sinonimo di arretratezza e lavoro ingrato nelle narrazioni del primo ’900, oggi è uno dei settori che chiede maggiore innovazione e che, secondo una ricerca realizzata dall’Osservatorio di Enpaia e Censis, è considerata da quasi l’88% degli italiani come il motore della ripresa economica dell’Italia post-Covid. Nel Report dal titolo: «Il valore dell’agricoltura per l’economia e la società italiana post Covid-19», si legge infatti che per l’86,5% dei rispondenti, l’agricoltura è essenziale per i posti di lavoro e per il 90,9% è utile per il turismo.
Associato al tema della produzione agricola è quello dei consumi. Su questo si legge in un sondaggio di Coop che lo stile alimentare post Covid-19 porta i consumatori verso cibi italiani, locali, tradizionali e biologici. Come ha dichiarato a Politico Europe, Olivier De Schutter, co-presidente del gruppo internazionale di esperti sui sistemi alimentari sostenibili Ipes Food, «mai prima d’ora c’è stato un interesse così forte per le filiere corte».
Dal Report di Enpaia e Censis, però, emerge che durante il lockdown più italiani sono stati portati a risparmiare ricorrendo a discount (+18%) e ipermercati (+3%).
Questo dato apre una questione tanto vera quanto ovvia: è chiaro a tutti che mangiare un piatto di spaghetti al pomodoro non è mangiare Made in Italy se gli spaghetti sono fatti con i peggiori grani industriali e il pomodoro è sugo addittivato di coloranti, magari importato da qualche tremenda industria sconosciuta? E che dire dei troppi prodotti di casa nostra che si basano sullo sfruttamento di lavoratori non regolari o sottoposti a forme di caporalato?
Questo ci consente una volta in più di ricordare che le prepotenti politiche del sottocosto dei discount e della GDO in generale, sono tra le operazioni di marketing più dannose per il nostro Made in Italy con effetti negativi su tutta la filiera, da chi produce a chi distribuisce, riducendo il cliente in un consumatore male-educato ai sapori e alla qualità dei prodotti e svilendo cibi come il pomodoro, l’olio, il vino, il pane, vere bandiere della nostra Dieta Mediterranea, a misere commodity prodotte da lavoratori sfruttati. E purtroppo questo discorso non ha confini regionali ed è uno dei segni distintivi targato Made in Italy.
Lo staff di RuralHack