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“Storie di pizza”: il documentario sulla pizza napoletana a breve su Amazon Prime

HC1A4827 1 scaled “Storie di pizza”: il documentario sulla pizza napoletana a breve su Amazon Prime

“Fatte ‘na pizza c’a pummarola ‘ncoppa vedrai che il mondo poi ti sorriderà”.

Così cantava Pino Daniele negli anni ‘90. E tra qualche mese il piatto che ha reso Napoli e l’Italia famosa nel mondo sarà, ancora una volta, protagonista. È questo l’intento di “Storie di pizza”, il documentario di Luca Carcano e Bruno Avagliano presentato il 27 marzo presso la Camera dei Deputati, a Roma, che verrà proiettato nei cinema di Napoli, Roma e Milano per poi finire su Amazon Prime. “Storie di pizza” sarà condotto dall’influencer napoletana Flavia Corrado, nota ai più come Zia Flavia Foodnboobs, e vedrà la partecipazione di Luciano Pignataro, giornalista de Il Mattino e anima del progetto.

Ogni anno solo in Italia vengono sfornati circa tre miliardi di pizze e ognuna incarna tradizione, storia, cultura e produzione artistica, perché “fare la pizza” è prima di tutto un atto creativo. Sono queste le colonne portanti del documentario, che entrerà nelle case e nei laboratori degli attori della filiera dietro al prodotto pizza. E questo articolo vuole essere anch’esso un piccolo percorso tra il passato, il presente e il futuro di uno dei piatti napoletani più amati, seguendo le fila dei produttori del documentario nel corso della conferenza.

Dietro le quinte della produzione della pizza

Il documentario avrà una durata di 50-70 minuti e sarà un percorso virtuale di tutto il processo che parte dalla selezione delle materie prime e arriva al prodotto finale. L’idea degli autori è infatti quella di far vivere e far comprendere allo spettatore cosa c’è dietro alle quinte, i “segreti” e gli aneddoti che rendono questo piatto unico e mondiale.

Gli autori faranno una sette giorni immersiva a Napoli e dintorni, in cui andranno a casa dei produttori per raccontare le eccellenze. Ogni capitolo un ingrediente, fino ad arrivare al piatto servito in tavola. Il documentario sarà proiettato nei cinema di Napoli, Roma e Milano e poi uscirà su Amazon Prime, dove sarà fruibile 24 ore su 24. 

«C’è veramente tanto interesse da parte sia dall’Italia che dall’estero di conoscere qualcosa in più su questo prodotto – ha spiegato Luca Carcano, registra del documentario – la parola “pizza” è forse la parola più internazionale che abbiamo dopo “mamma”. Questo è un primo passo per raccontare il made in Italy a livello internazionale. Dobbiamo essere orgogliosi dei prodotti che abbiamo perché ci imitano veramente in tanti. In Italia abbiamo non so quante DOP, DOC e patrimoni Unesco in ogni dove. Ci auguriamo che “Storie di pizza” sia solo la prima di diverse edizioni, perché sulla pizza c’è tanto da raccontare e non è possibile rinchiudere tutto in un solo documentario».

Una storia lunga più di cento anni

La pizza margherita nasce nel 1889 in onore della Regina d’Italia, Margherita di Savoia. Pomodoro, basilico e mozzarella richiamano, infatti, i colori della bandiera italiana. La regina, in visita a Napoli, ordinò una pizza. Per l’occasione il pizzaiolo Raffaele Esposito aggiunse due nuovi ingredienti al condimento fatto con solo pomodoro, creando la margherita. E così la pizza fece il suo ingresso tra i piatti dell’alta nobiltà. «Il racconto della pizza non poteva che partire dal ventre di Napoli – ha aggiunto Luciano Pignatano – perché la pizza napoletana, a differenza di tutte le altre pizze in Italia, è un prodotto cittadino che nasce alla fine del 700, quando i francesi occuparono Napoli. All’epoca era la seconda città più popolosa d’Europa dopo Parigi e una delle più popolose del mondo. La pizza nacque non come preparazione di forno o avanzo di impasto, ma per sfamare le persone che dovevano stare in giro tutta la giornata. Fu realizzato un forno ad hoc, il caratteristico forno napoletano a bocca di luna che consente la cottura della pizza in 90 secondi grazie alla capacità di raggiungere temperature di 400° C».

La pizza, parte della Dieta mediterranea, è infatti una pietanza completa che contiene cereali, proteine e verdure. È un piatto popolare, che nasce tra e per il popolo, ma è anche in grado di trasformarsi in un piatto gourmet. Rivisitazioni, innovazioni e creazioni sono altre parole che appartengono al vocabolario dei pizzaioli. La parola d’ordine, però, resta sempre “semplicità”. «Secondo me la semplicità è quello che riesce a tenerla sempre in cima alle classifiche di gradimento dei piatti di tutto il mondo – ha spiegato Flavia Corrado – La pizza è simbolo di democrazia, perché è un piatto che da un lato lega alcune eccellenze del territorio e, dall’altro, è rimasta popolare, unendo e mettendo d’accordo chiunque sia nel gusto che nella convivialità».

Dai quartieri all’estero: la pizza napoletana padrona del mondo

La pizza è un’occasione di riscatto sociale fornendo, anche e soprattutto ai quartieri più disagiati, uno straordinario motore economico. Molti ragazzi trovano la loro strada nell’arte di “fare la pizza” che è un lavoro o, meglio, un’arte a tutti gli effetti, che nel 2017 è stata riconosciuta dall’UNESCO patrimonio immateriale dell’umanità. Si tratta della terza iscrizione nazionale nell’ambito della tradizione enogastronomica dopo la “Dieta Mediterranea” (2013) e “La vite ad alberello di Pantelleria” (2014). Solo a Napoli vivono e lavorano circa 3000 pizzaioli, suddivisi in tre categorie in base all’esperienza e alle capacità. All’estero, invece, la pizza ha fatto conoscere Napoli e l’Italia lungo l’intero globo. Per dirla insieme a Flavia Corrado, la pizza «ha permesso agli immigrati italiani di integrarsi e farsi apprezzare in tutto il mondo». Questo anche grazie al forte valore identitario della pizza, al suo essere «un racconto che parte dalla tradizione ma che sa rinnovarsi attraverso l’apertura e la sperimentazione dei giovani talenti».

«Si stima, che ogni anno in Italia vengono sfornati circa tre miliardi di pizze – ha spiegato Bruno Avagliano, co-autore del documentario – Un numero di per sé impressionante che però rispetto al mercato americano diventa ridicolo: considerando che la popolazione americana è di 350 milioni, si è stabilito che il 93% di essi consuma questo prodotto una volta a settimana. Negli Stati Uniti sono presenti circa 190.000 pizzerie. Un aspetto interessante è che intorno alla pizza ruota tutta un’altra serie di prodotti, come il vino che sta prendendo sempre più piede». Anche il deputato Attilio Pierro ha sottolineato quanto, nonostante «la pizza sia un’arte tramandata da generazione a generazione, si rinnovi continuamente. Quando andiamo nelle varie pizzerie, oltre alle pizze classiche nei menù ci sono le “fantasie” del pizzaiolo. E in ogni territorio si trovano delle varianti, perché tutti i pizzaioli trasformano il prodotto in base ai prodotti locali. Ad esempio, in Cilento abbiamo il formaggio di capra».

Italian sounding: tutelare un mercato in forte crescita dalla contraffazione

Tutte queste eccellenze però vanno tutelate, perché l’Italian Sounding è dietro l’angolo. Si tratta di un fenomeno che consiste nell’utilizzo, su etichette e confezioni, di denominazioni, riferimenti, immagini e marchi che evocano l’Italia per commercializzare prodotti (soprattutto, ma non esclusivamente agroalimentari) non autentici. «L’Italian Sounding non soltanto toglie e ruba miliardi sui mercati internazionali ogni anno facendo passare per italiani prodotti che italiani non sono – ha dichiarato il deputato Luigi D’Eramo, Sottosegretario di Stato per l’Agricoltura, la sovranità alimentare e le foreste – ma c’è anche il rischio che questo avvenga al contrario, con le importazioni, si pensi al caso dei “pomodori cinesi”». Questa pratica mette a rischio la salute dei consumatori, perché si tratta di prodotti non tracciati e non certificati. In secondo luogo, ostacola anche lo sviluppo di un mercato in continua crescita, con produttori che vedono i loro introiti ridotti. «Solo in Italia si parla di un business di circa 15 miliardi di euro e 200 mila posti di lavoro – ha aggiunto D’Eramo – Secondo Italmopa (Associazione Industriali Mugnai d’Italia) parliamo di circa 400 milioni di chilogrammi di farina, 225 milioni di chilogrammi di mozzarella, 30 milioni di chilogrammi di olio d’oliva e 260 milioni di chilogrammi di salsa di pomodoro. Numeri oggettivamente importanti che rappresentano anche un punto di vista economico ed occupazionale, una colonna portante del nostro mondo economico».

Tra passato e presente: il mestiere del pizzaiolo e l’agricoltura di precisione

E oggi, “fare la pizza” è un lavoro, un’arte. La gestualità e la manualità del pizzaiolo costituiscono un atto artistico, quasi una danza. Un piacere per gli occhi di un passante, ma anche un atto d’amore che è quello della creazione. «La cosa bella degli ultimi anni è che questo sia diventato un fenomeno italiano – ha continuato Pignataro – Oggi “pizza” significa anche lavoro per tanti giovani ed è un mestiere di cui andare orgogliosi. “Pizza” significa aiutare l’agricoltura italiana di precisione, nel senso che in questa gara verso il meglio i pizzaioli hanno sostenuto piccole produzioni, contribuendo al rilancio di prodotti importanti come San Marzano come il piennolo. Si tratta quindi di un fenomeno complesso, che verrà raccontato da professionisti del settore in maniera semplice e comprensibile anche a chi non conosce questo mondo».

E non solo. Bruno Avagliano ha anche spiegato che l’idea rientra in un progetto un più ampio che punta, nei prossimi 2-3 anni, a raccogliere e digitalizzare le più importanti eccellenze del nostro territorio. «Con la pizza giochiamo facile perché, da sola, ne racchiude ben quattro: l’olio, la farina, il pomodoro e il fior di latte (o mozzarella). In “Storie di pizza” le abbiamo messe insieme ad alcune delle grandi aziende che danno lustro alla nostra Campania».

Il cibo, la nuova ossessione del secolo

Proprio perché i social e le nuove tecnologie sono ormai entrati a pieno titolo nella nostra quotidianità, noi di Rural Hack qualche anno fa abbiamo svolto una ricerca finalizzata a indagare l’universo culturale degli utenti “pizza addicted” online. In particolare, abbiamo analizzato le lingue attraverso le quali si esprimono i macro-discorsi diffusi su Twitter, le percezioni online degli utenti Facebook rispetto alle pizzerie più popolari del nostro territorio e il linguaggio visivo adottato dagli utenti di Instagram. La pizza è sicuramente uno degli argomenti di cui si parla di più nell’enogastronomia ma il cibo, nella sua interezza e complessità, è una costante negli argomenti di punta sul web. Hashtag come #food e #foodporn restano sempre in vetta alle classifiche di analisi delle conversazioni online. I social network costituiscono il principale luogo e strumento di diffusione di questo fenomeno, che se già prima della pandemia aveva delle dimensioni importantissime, con il lockdown è letteralmente esploso. Nei mesi più duri gli hashtag relativi al cucinare – tra cui  #food e #foodporn – hanno superato #iorestoacasa in relazione alle sei attività/contenuti maggiormente seguiti sui social e con più interazioni. RuralHack ha perciò realizzato “FoodHacker dal #foodporn al #foodlove – Cibo, dati e influencer nell’epoca della pandemia” in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II di Napoli. Un format di 5 puntate video e articoli di accompagnamento che indaga come cambiano le relazioni tra cibo e digitale nell’epoca del Covid, a cui hanno partecipato diversi esperti tra cui proprio Flavia Corrado e Luciano Pignataro che ci sono sempre stati vicini nei progetti educativi fatti con e per i giovani. Ogni puntata, una tematica: dal digital food al lockdown, dalla Dieta Mediterranea alla qualità alimentare e alla sua comunicazione, fino al food influencer marketing. 

La storia non finisce qui. Luca Carcano e il suo team hanno chiuso un accordo con Maria Grazia Cucinotta per avviare un nuovo progetto, un documentario che vedrà protagonista un altro prodotto del made in Italy: la Dieta mediterranea.

a cura di Alessandra Romano

Redazione
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